Amnistia E Indulto, Una Conversazione Con Andrea Pugliotto

Amnistia e indulto. Sono atti di clemenza collettiva. Se ne è fatto un abuso in passato, oggi sono diventati rari. Perché? E’ possibile recuperarli come atti di politica criminale? L’abbiamo chiesto a Andrea Pugliotto (Rovigo, ’61), Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara, curatore con Stefano Anastasia e Franco Corleone del volume Costituzione e clemenza. Per un rinnovato statuto di amnistia e indulto (Ediesse).

Un lavoro che raccoglie gli atti del Seminario, ospitato presso il Senato della Repubblica il 12 gennaio 2018, promosso da La Società della Ragione, una delle realtà associative impegnate nella riflessione culturale e nell’azione politica riformatrice in materia di giustizia, diritti, pene.

Il libro, a sentire il professore, intende essere lo strumento per una battaglia di scopo: restituire agibilità, politica e giuridica, agli strumenti di clemenza collettiva coerentemente con il disegno costituzionale del diritto punitivo. Attorno a questo obiettivo condiviso si sono confrontati costituzionalisti, penalisti, studiosi del processo penale, magistrati, avvocati.

“Non si è trattato di un incontro accademico sulle ragioni della crisi della giustizia e del carcere – afferma Pugiotto – L’obiettivo era più mirato e, allo stesso tempo, più ambizioso”.

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Ce lo spiega?

Ragionare su una possibile riformulazione dell’art. 79 della Costituzione, che disciplina gli istituti dell’amnistia e dell’indulto, assumendoli come chiave di volta per contribuire a raddrizzare il legno storto dell’imperante populismo penale.

L’appendice del volume, infatti, contiene il testo di un millimetrico disegno di revisione costituzionale, ora offerto a deputati e senatori quale mezzo e fine per una iniziativa parlamentare e di politica del diritto.

Perché, rispetto al tema della clemenza collettiva, non c’è particolare attenzione da parte di politici, media, intellettuali?

Perché se ne è persa la vocazione originaria, iscritta nell’etimo della parola: clemenza, in greco antico, esprime l’atto del piegare, nel senso di modulare lo strumento adattandolo alle necessità. Prefigura, cioè, una misura flessibile per situazioni particolari in cui può trovarsi un ordinamento penale in affanno. Oggi, invece, la clemenza ha smarrito totalmente questa sua funzione.

Viene disprezzata quale ultimo rifugio del potere arbitrario: per la doxa (opinione) dominante, infatti, l’indulto è un insulto e l’amnistia è un’amnesia. Contribuisce a tale condanna la sua storia, fatta di un abusato ricorso a simili misure. Ma è una storia passata: sono ormai più di venticinque anni che – con la sola eccezione dell’indulto del 2006 – la Repubblica italiana non conosce un provvedimento di clemenza generale.

Neppure la scorsa legislatura ha iscritto il tema all’ordine del giorno: né per il Giubileo dei carcerati, né come omaggio postumo alla scomparsa di Marco Pannella, né dopo la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti umani che condannava l’Italia per le condizioni inumane delle sue carceri, né in risposta al messaggio alle Camere del Presidente Napolitano che pure quei provvedimenti invocava.

Ai miei occhi, la demagogia di oggi è uguale e contraria a quella di ieri. Ecco perché il volume, con la sua proposta finale, tenta di fondarne una diversa trama costituzionale, capace di resuscitare amnistia e indulto oggi mummificati.

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La radice giuridica di talemummificazione è indicata nell’attuale art. 79 della Costituzione, frutto di una revisione approvata nel 1992 sulla spinta dell’indignazione popolare per le indagini di Mani Pulite. Prevedendo un quorumdeliberativo elevatissimo (la maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna camera, articolo per articolo e nella votazione finale) si è così passati dalla bulimia all’astinenza da provvedimenti di clemenza. Basterà abbassare l’attuale quorum per porvi rimedio?

Un diverso quorum è condizione certamente necessaria, ma non sufficiente. La proposta discussa nel volume, infatti, è più articolata. Inquadra gli atti di clemenza entro il divieto di pene inumane e il loro finalismo rieducativo, in linea con recenti affermazioni della giurisprudenza costituzionale. Rimette la loro approvazione ad un dibattito parlamentare pubblico da svolgersi sempre in Assemblea.

Li condiziona a situazioni straordinarie o a ragioni eccezionali così rendendo possibile un duplice controllo delle leggi di clemenza, a monte (da parte del Capo dello Stato) e a valle (da parte della Corte costituzionale). Capitalizza il divieto costituzionale di referendum abrogativi di simili leggi, mirante a metterle al riparo da interferenze di un’opinione pubblica suggestionabile ad arte.

All’interno di un così mutato quadro d’insieme, l’abbassamento del quorum deliberativo alla maggioranza assoluta nella sola votazione finale non è una scaltra scorciatoia, bensì una coerente scelta normativa.

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Il lettore disincantato potrebbe accusare il volume (e i suoi curatori) di velleitarismo, considerato l’indirizzo politico giustizialista dell’attuale maggioranza felpa-stellata. Come replica ad una simile critica?

Innanzitutto con un’osservazione di metodo. Qualunque battaglia di scopo mirante al ripristino della legalità costituzionale si fonda su una premessa: agire come se l’interlocutore, chiunque esso sia, possa essere convinto dalle tue buone ragioni.

Diversamente, non resterebbe che la forza o l’inerzia. La politica è agire trasformando, e da sempre le trasformazioni in tema di diritti hanno dovuto remare contro, aggregando con pazienza un consenso inizialmente inimmaginabile.

Ma in questo caso la montagna da scalare è altissima per superare la diffidenza generalizzata verso leggi di clemenza che – agli occhi dei più – non rappresentano certo una priorità politica e parlamentare.

Lei crede? Non è così. Le basti qualche esempio, pescato qua e là, tra le notizie parlamentari di queste settimane. Quello che ieri si chiamava rottamazione delle cartelle esattoriali ovoluntary disclosure, e che oggi è battezzato come pace fiscale, altro non è che un condono. E un condono, dal punto di vista logico e strutturale, è sospensione per il passato della legge penale, dunque – a rigore – strumento di impunità retroattiva.

Ogni condono, comunque lo si etichetti, altro non è che un atto di clemenza atipica, unaoscena amnistia, per l’approvazione della quale però si ricorre allo strumento della legge ordinaria (approvata a maggioranza semplice), passando sopra al dissenso dell’opinione pubblica come uno schiacciasassi. Vuole un altro esempio di ancor più stringente attualità?

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Prego, sono tutta orecchi…

Ricorrendo al voto di fiducia, il Governo ha ottenuto dal Parlamento la sospensione dei termini di prescrizione dopo una qualsiasi sentenza di primo grado, cioè – per chiamare le cose con il proprio nome – la sua abolizione: la sospensione, infatti, presuppone la ripresa del corso della prescrizione, che invece non sarà più possibile a fronte dell’esecutività della sentenza pronunciata.

Si creerà così una situazione che non è solo kafkiana, con un imputato presunto colpevole sine die e sottoposto alla spada di Damocle di un processo penale il cui ritmo e respiro non sono dettati dalla legge, ma dalle procure.

C’è dell’altro. Fermando le lancette dell’orologio processuale, s’innescherà un meccanismo accumulativo di processi su processi mai finiti. Inevitabile sarà il crearsi delle condizioni per una loro rottamazione, attraverso una necessaria amnistia. E così il cerchio verrà a chiudersi, e tutti si troveranno a dover fare i conti con le asperità dell’attuale art. 79 della Costituzione.

Gli esempi da lei portati segnalano lo scarto esistente tra parole e fatti, tra la esibita contrarietà alla clemenza collettiva e il ricorso mascherato ad essa. Altri esempi simili si ritrovano squadernati nel volume. Tutto ciò segnala, dunque, un problema di cultura politica, e di politica del diritto in particolare. Come fare per invertire tale tendenza?

Le rispondo invitandola a guardare con attenzione la copertina del nostro volume: riproduce un quadro metafisico di Giorgio De Chirico, in cui il padre riabbraccia il figliol prodigo. L’abbiamo scelta non solo per la sua potenza cromatica, ma anche e soprattutto perché evocativa della logica emancipante della clemenza rispetto alla consueta rappresentazione patibolare della legge penale.

Quel gesto di perdono restituisce il figlio ad una nuova vita, gli concede una seconda opportunità. Spezza la logica sacrificale dell’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono, per usare le parole di un recente libro di Massimo Recalcati. Vale in psicanalisi, vale nel diritto: una legge penale esclusivamente retributiva e vendicativa, che applica i suoi dispositivi in modo meccanico e impersonale, indifferente alle sorti del soggetto recluso, non è una legge umana. Eppure la legge è fatta per gli uomini, non viceversa.

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Dicendo questo, lei antepone le ragioni del perdono alla certezza della pena che ogni provvedimento di amnistia e indulto colpisce a morte. Non sta forse qui la ragione più profonda del senso comune avverso agli atti di clemenza?

Anche questa è una radicata convinzione che va sradicata, perché chi pensa questo ha una mente che mente. Domandiamoci: che cosa invoca il cittadino, quando invoca la certezza della pena? Vuole essere certo che la pena sarà irrogata e scontata fino all’ultimo giorno, dentro un carcere, senza eccezioni. Così intesa, pena sta non per sanzione o punizione, bensì per dolore, sofferenza.

Oggi s’invoca la certezza della pena perché si vuole che chi ha agito contro la legge debba soffrire, patire. Penare, appunto. Da qui il rifiuto per leggi di clemenza, colpevoli di favorire condannati (che escono prima di galera) e imputati (che la fanno franca). Tutto verosimile, ma non vero, perché non è questo il significato che la Costituzione attribuisce al concetto di «certezza della pena».

In che senso?

Costituzionalmente, la pena è certa quando la fattispecie di reato e la sua cornice normativa sono predeterminate dalla legge, così da evitare che siano il frutto, ex post, dell’arbitrio del potente. In questo senso, la certezza della pena di cui parla l’art. 25, 2° comma, della Costituzione è una garanzia per tutti. Tecnicamente, la certezza della pena è un concetto giuridico formale, non sostanziale. Ecco perché adoperarla come clava contro ogni proposta di amnistia e indulto significa rivelarsi ignoranti, nel senso etimologico di chi non sa ciò di cui pure parla.

Significa aver letto non la Costituzione, ma gli editoriali di Marco Travaglio, confondendo questi con quella. Ecco perché chi si sforza di restituire agibilità politica e costituzionale agli atti di clemenza non è né irresponsabile né estremista. E se il nostro volume riuscirà nell’intento di restituire ad amnistia e indulto almeno una agibilità culturale, potremo egualmente dirci ragionevolmente soddisfatti.

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Un’ultima domanda: sulla revisione dell’art. 79 della Costituzione avete avuto incontri con il Guardasigilli Bonafede?

Se potessi scegliere la domanda di riserva, le sarei molto grato.